martedì 14 giugno 2011

Usanze&Vacanze

Bentornati cari lettori del blog di Quadrazza!
Perdonatemi per queste sporadiche fiammate ma siamo in pieno periodo di esame ed il tempo scarseggia. Ringrazio comunque per questo particolare post la grande fan dei Deepest Angela (che mi ha ricordato dei miei doveri di scrittore) e soprattutto mio Zio Bobo, a cui dedico il testo di oggi (mi dispiace Zio se non ho potuto dedicarlo tutto allo yogurt greco, ma il materiale non era sufficiente).

USANZE&VACANZE
Considerando che il ferragosto è stato inventato da uno dei più grandi imperatori romani (le "feriae augustae" dell'omonimo Augusto) oramai quasi due millenni fa, mi azzardo a dire che quella delle vacanze è una delle usanze, delle abitudini umane, più antiche e consolidate. D'altronde tutti quanti lavorano, o fanno finta di farlo, ed essendo stato il lavoro uno stress sin dal momento esatto in cui è stato inventato, di conseguenza non credo che le vacanze di duemila anni fa fossero molto diverse da quelle di oggi. Il desiderio di "staccare", di vedere posti nuovi, o semplicemente di non avere a che fare con vicini ed affini per un po' di tempo (magari approfittando della bella stagione estiva) è un impulso secolare. E secolari sono i "clichè", gli automatismi che contraddistinguono solitamente una vacanza.
Si parte dall'annosa questione che vede fronteggiarsi le due mete più ambite: Mare e Montagna. Le dispute su queste due filosofie vacanziere possono raggiungere vertici sanguinosi ed in ogni caso i rappresentanti di ognuna delle due fazioni considera i rivali alla stregua dei decerebrati. Tendenzialmente i fan delle alture elencano tra le nefandezze del mare: le file autostradali leggendarie, il caldo opprimente, le zanzare, i tedeschi e la generale volgarità del tutto. Gli altri invece fanno notare ai montanari la sostanziale piattezza della gita sui monti, che spesso consiste nel camminare tra le mucche, parlare tra le mucche e mangiare (mucche) tra le mucche. Alle mucche si aggiungono anche in questo caso i tedeschi, che pertanto rappresentano una costante comune e di conseguenza eliminabile. Ad ogni modo, essendo la questione tutt'ora irrisolta lasciamo ad altri ulteriori disquisizioni.
Una volta scelta la meta bisognerà affrontare (sia che si vada sulle Dolomiti, sia che si preferiscano gli azzurri mari) la preparazione della valigia. Anche questa usanza è annosamente divisa in due grandi famiglie: i minimal-nichilisti e i riempitori estremi. Mio padre fa orgogliosamente parte della prima cerchia. I minimalisti sono noti per le valigie vuote, ai limiti per l’appunto del nichilismo. Sono capaci di sopravvivere in terra straniera con due sole mutande, i pantaloni che hanno addosso e qualche pezzo di vestiario a caso. I secondi invece vorrebbero essere forniti di capaci auto-botte per poter portare in villeggiatura, oltre alla collezione autunno-inverno e primavera-estate, anche utensili e ciarpame vario. Papà (che come già detto è un minimalista) sogna ogni notte, prima di partire per una vacanza, di poter intraprendere la gita con solo i vestiti addosso, un k-way (che lui reputa indispensabile ovunque, dal Sahara al Botswana) ed uno spazzolino da denti. Io invece, nella stessa notte, ho incubi vari in cui mio padre smonta di nascosto le mie valigie togliendo tutte le cose non necessarie (come la biancheria intima), permettendomi un viaggio più comodo e sereno.
Superate le valigie si è oramai arrivati alla meta. Ed è lì che si verifica l’Evento. L’acquisto dei souvenir.
I souvenir sono principalmente contraddistinti da due nature: o sono dei pregiati oggetti manufatti oppure sono golose leccornie locali. In ambo i casi ci si infila in un tunnel senza vie di scampo. Il turista ama riempirsi di paccottiglia, pensando inoltre che gli amici e parenti a casa fremano nell’attesa dei regalini vacanzieri. Cado anche io spessissimo nella trappola; riflettendo sulle difficoltà dei miei amici, che hanno dovuto vivere fino al momento del mio ritorno senza le tipiche calzature greche dotate di pon-pon, od anche senza le piastrelle marocchine (per non parlare delle amabili “grolle” valdostane).
amici che ricevono estasiati una "grolla" valdaostana

Per quanto riguarda invece i prodotti gastronomici tipici cadere in tentazione è molto più comprensibile. Il turista che si rispetti infatti non solo vive la città, ma la anche “mangia”. Ci si ritrova pertanto ad assaporare piatti improbabili e ad assumere assurde abitudini culinarie.
Naturalmente la famiglia Quadrazza non è immune da questo fenomeno.
In Tunisia mangiammo datteri a qualsiasi ora, tant’è che ne portammo un quantitativo proibitivo al ritorno.
Andato a male e buttato.
In Svezia papà rimase letteralmente affascinato dai leggendari affettati nordici, cibandosi di dosi massicce di prosciutto di renna od alce, uno di quegli animali buffi che solo gli svedesi possono avere insomma. Comprammo anche in questo caso una mezza coscia di renna affumicata, un investimento per il futuro.
Andato a male e buttato.
In Grecia poi, terra delle olive e dello yogurt, non potemmo resistere al richiamo di quest’ultimo. I greci lo mettono ovunque, e la duttilità del prodotto (cioè la sua mancanza di sapore) lo rende perfetto per lo scopo. Lo yogurt però, si sa, va a male. Pertanto dovemmo aspettare il ritorno a casa per comprare questo nettare lattiginoso.Il giorno dopo il rientro accompagnai papà al supermercato, alla ricerca del bianco nettare dei greci. Cercai di dissuaderlo, di distrarlo, ma alla fine lo trovò. Una tragedia biblica. Ora a casa si consuma yogurt ovunque: sulla pasta, per dolce con la marmellata, insieme alle verdure e via dicendo. Ho il terribile sospetto che mamma metta lo yogurt anche sopra ai croccantini dei gatti, ma non ne sono sicuro.
La conclusione a tutto questo discorso però non è critica come il resto. Perchè alla fine è proprio questa nostra incapacità di adattarci, di essere metodici e integrati come ci si sente nella vita di tutti i giorni, a rendere la vacanza un momento di estremo ed intenso svago. Cosa sarebbe stata la gita in Tunisia se non avessi seguito il consiglio di papà a lasciare le mie scarpe più leggere fuori dal balcone (permettendo a qualcun'altro di impossessarsene) lasciandomi così in mezzo al deserto con i miei scarponi del 15/18, ed una temperatura in zona piedi da altoforno? Mi ricorderei con lo stesso piacere della settimana in Portogallo, se mi fossi rifiutato di mangiare "baccalao" a colazione, pranzo e cena? Naturalmente no, ed è per questo che adoro andare in vacanza.
Però papà, per favore, basta con lo yogurt.

venerdì 13 maggio 2011

Una Ballata!

Innanzitutto scusate per gli inconvenienti di Blogger, ma pare che siano stati giorni difficili per gli amministratori del sito. Pertanto dovrò riproporre il post, e riscrivere a braccio l'introduzione che francamente non ricordo.
Dunque, la ballata che vi presento è un mio tentativo di riprodurre lo schema metrico dolcestilnovista. Ho tentato addirittura di usare versi endecasillabi e settenari! Ma sia chiaro che, se la metrica è giusta, tutto il resto è di fattura sicuramente insufficiente per poter essere accostato al genere "poesia".
Il componimento è dedicato al bardo (ruolo di un gioco in cui mi cimento qui a Roma, chiamato Dungeons and Dragons) del mio gruppo, il quale ha appena deciso di fare il "master" (e cioè colui che, invece di giocare attivamente, regola e amministra la giocata). Il nostro gruppo di gioco si chiama "SventraPapere" ed è importante ai fini della parafrasi. So benissimo che non interessa a nessuno dei miei intrallazzi da sociopatico ma è tutto necessario per fare in modo che il lettore riesca a dare un senso al testo.

Ballata del Bardo Sid


E' dello grande Bardo
questa la ballata,
di destino ricordata
a poetico stendardo.

Mai più fedel istrione
dal coturnato brando,
vieppiù, di tibia defraudato.
Ultimo ave, cotal canzone,
non potea esser blando;
di questo almeno il gruppo sia lodato!

Il pennuto già sventrato
con ancor meno giubilo,
vedrà di vita tagliar il filo
senza la man del bardo.

Salutate il grande Bardo,
è questa la  ballata,
di destino ricordata
a poetico stendardo.

La nigra verga adesso,
impugna saldamente:
una speme di avventura
plenaria di gentil sesso.
Di buona sorte, fortemente,
augurargli nostra è la premura.

Orsù cantiam,con arsura
della gola, vi comando:
acchè il ciel stia domandando
di chi urliam il riguardo.

Salutate il grande Bardo,
è questa la  ballata,
di destino ricordata
a poetico stendardo.

quadrazza

sabato 12 marzo 2011

La "Spezia" solo andata

Tra le tante cose, peculiarità e caratteristiche che mi fanno stimare i miei genitori una in particolare mi ha sempre reso fiero e orgoglioso. E' un vezzo che appartiene soprattutto a mio padre e che ho già avuto modo di descrivere in precedenza (http://quadrazza.blogspot.com/2011/01/minestrone-mio-minestrone.html). Si tratta dell'utilizzo sconsiderato e reiterato delle spezie.
Mio padre le adora,insieme alle erbe, alle misture e alle polveri officinali. Passa intere estati chino sotto il sole ardente a confabulare con le sue piantine e le sue bacche prelibate. Ma di questo parlerò in altre occasioni. Oggi voglio descrivere infatti l'utilizzo spropositato che fa dei suddetti "odori" in cucina. Se il Lunedi ci tocca degustare l'orrenda brodaglia dietetica, gli altri giorni feriali non sono da meno.
Di solito la scena è sempre la stessa: la famiglia torna a casa dopo le incombenze mattutine e vede il capostipite a lavoro nei pressi dei fornelli. In una bolgia di piatti, tegami e frullatori vari, qualcuno trova il coraggio di chiedere cosa c'è per pranzo. -Una bella Amatriciana!- potrebbe essere sovente la risposta. Al che ci si ritira nelle camere da letto, in attesa del pasto. Quando poi la pasta è pronta, fumante nei piatti, ecco che tutti noi quattro ci lanciamo sulla prelibatezza. Dopo i primi due bocconi però la masticata si fa più lenta e ponderata, fino a che un'anima pia non chiede:
- Papi, ma cosa c'è dentro questa Amatriciana?-
-niente, niente, la pancetta non lo vedi?- bofonchia Papà, tentando di rimanere impassibile.
dalle retrovie un' altra voce (la mia di solito) che sbotta- Papà 'sta pasta è proprio strana...-
-si Pa', davvero, lo sai di che sa?- rincara mia sorella.
-non sa di niente, mangiate!- tenta di chiudere il genitore, ma è troppo tardi...
- sa di... di... MENTA!- esclamiamo io, mia madre e mia sorella quasi all'unisono.

Inutile dire che ci concediamo pochi bis in questi frangenti. Alle volte poi è addirittura difficile individuare il sapore del condimento alieno. La fantasia di mio padre infatti, il quale solo all'apparenza potrebbe sembrare un distinto e pacato libero professionista di mezz'età, si scatena spesso con una furia inaudita; comportando miscellanee stravaganti e quasi azzardate. A tale genialità gastronomica applica poi una mostruosa lavorazione delle materie prime che sfiora la maniacalità scientifica. Inoltre è provvisto di una serie indefinita di varietà di condimenti. Tutte le volte che vede delle spezie ci si lancia con uno strano brillio degli occhi, acquistando quantitativi esagerati di misture varie. Al ritorno dal Marocco è stata una fortuna che non ci abbiano fermato alla dogana, non perchè avessimo infranto la legge; ma comunque sia vai a spiegare alla finanza cosa sono tutte quelle bustine piene di polveri di ogni tipo! La cosa peggiore di tutta questa situazione è che mio padre è un ottimo cuoco, sempre che si attenga alla tradizione. Ed è anche un discreto "rielaboratore" ad essere onesti. Il suo estro eccessivo però, applicato agli intoccabili mostri sacri (amatriciana, carbonara, etc), rende talvolta difficile il pranzo.
Un giorno, pensando che tutte le erbe sciorinate dal capostipite fossero sempre le stesse, mi presi la briga di catalogarle (almeno in parte) per avere una prova della loro esistenza fisica. Ne è uscito fuori una specie di compendio alchemico che se fosse stato trovato in mano ad una donna nel 1400, l'avrebbe condotta al rogo per direttissima:

Elenco delle Erbe usate dal Sommo Padre (in ordine sparso)


prezzemolo, rosmarino, salvia, timo, basilico e peperoncino (e fino a qui nessun problema)
pepe nero, pepe verde, pepe bianco e pepe rosso (ma non chiedetemi la differenza, perchè grattugiati diventano tutti neri)
menta, citronella, mentuccia, ruta (utilizzate di solito per i dentifrici)
cardamomo, cumino, chiodi di garofano (questi per fortuna non li ha mai usati tutti insieme)
noce moscata, zenzero e pimento ( la prima volta che aggiunse la noce moscata sugli spaghetti io e mia sorella dichiarammo la resa per manifesta superiorità)
cannella, curry, berberè, varie ed eventuali...

Libera rappresentazione della sintetizzazione degli ingredienti in casa Quadrazza

Ora, prima di concludere il breve resoconto, voglio avvertire tutti i miei lettori che i nostri pranzi non sono sempre così. Insomma viviamo anche noi nel mondo reale e, da quando abbiamo tolto il Piccolo Chimico dalla circolazione, va tutto molto meglio. Ma si continuerà ad usare le spezie, meglio non illudersi mai del contrario...

lunedì 21 febbraio 2011

Monday Tales- senza titolo

Lo ammetto, ho saltato un lunedi... ma adesso sono tornato, con una mia creazione abbastanza recente. Si tratta di un racconto sull'amore (tema da me affrontato davvero poco), ispirato al concetto di "ciclicità del tempo". Ammetto di averlo scritto mentre sentivo le "quattro stagioni". Inoltre non ha titolo, perchè non ne ho trovato ancora uno adatto, quindi meglio non metterlo, piuttosto che sceglierne uno forzato. Spero vi piaccia!







-Avete visto il mio vero amore?- chiese il Giovane.
-Verso Sud- rispose alzando la vecchia ed ossuta mano il Viandante.

Era Primavera quando il Giovane iniziò a cercare il suo vero amore. Egli l’aveva vista passeggiare leggiadra e sospesa sui verdi prati e attraverso le dolci foreste che ora anche lui ripercorreva, nel tentativo di trovarla. Veloce e noncurante passò interi campi di delicate primule, distese di orgogliose ortensie ed innumerevoli orchidee, che sembravano essere sbocciate come per magia al passaggio della favolosa creatura che il ragazzo andava inseguendo. Violette e ciclamini, myosotis e magnolie, papaveri, nasturzi, margherite e lavanda, lillà e mughetto. La natura era in festa ed esplodeva di quella forza vitale di cui solo un fiore può essere testimone vero e fedele. Ma il Giovane era insensibile a cotanta bellezza, perché ne inseguiva una a dir poco maggiore, egli correva verso la felicità eterna, verso l’immortale speranza.

-Avete visto il mio vero amore?- chiese il Giovane.
-Verso Est-  disse l’augusto Viandante, con un cenno dello stanco capo.

Era Estate ed il Giovane continuava la sua folle corsa, calpestando innumerevoli miglia, notte e giorno, sempre seguendo le flebili tracce del suo vero amore, sentendo l’appena percettibile scia di profumo. Profumo di pino e melograno, di melissa e di glicine, di lauro e di larice, di mirtillo, salvia e sambuco. Era il di lei odore o forse oramai egli non riusciva più a distinguere la differenza di tutte quelle piante e frutti e fiori dall’ essenza che andava disperatamente incalzando? Ma il tempo non permette soste ne remore di sorta, bisognava continuare e non disperare. Troppo evidenti i segni del suo passaggio, troppo chiari i suoi richiami. Il bosco era un turbinio di colori, gli alberi ondeggiavano allegri e festosi, piegati dal vento di levante, ed ogni cosa era concerto e festa.

-Avete visto il mio vero amore?- chiese il Giovane.
-Verso Nord- sospirò il Viandante, stiracchiando le decrepite membra.

Era Autunno ed il sonno prese il Giovane. La luce iniziava a scendere durante le lunghe e noiose giornate, e la foresta si preparava a riposare. D’oro e d’argento diventavano i forti pioppi e le nodose querce. Un morbido tappeto allietava gli stanchi piedi del Giovane, che sovente trovava ristoro sotto le fronde degli antichi platani e dei maestosi tigli. Il canto degli uccelli continuava ad accompagnare la sua corsa infinita, ma adesso al suo passaggio non vedeva altro che le foglie cadere, i fiori morire e gli animali scappare. Eppure il riposo non era neanche contemplato, la ricerca non era finita poiché se si sforzava egli ancora percepiva la presenza del suo vero amore. L’aveva trovata nell’odore di legna muschiata, nella bellezza del giallo e del verde del bosco, nelle gocce di rugiada e pioggia sopra i fiori appassiti.

-Avete visto il mio vero amore?- chiese il Giovane.
-Verso Ovest- mormorò il Viandante, immobile.

Era Inverno, tutto era bianco, anche il Giovane, disperato e sfinito. Nivea bianchezza cadeva dal cielo plumbeo e senza vita della foresta. Tutt’intorno era solo silenzio, insopportabile come un urlo continuo e petulante, che permeava ogni cosa uccidendola. Muti gli uccelli, muti gli alberi un tempo forti e gagliardi ed ora spogli e nudi come cadaveri. Il Giovane aveva perso la strada, aveva perso le tracce di lei, l’aveva abbandonata. Distrutto e sfinito si ritrovò a camminare, incerto e malconcio verso una polla d’acqua, oramai ghiacciata. Egli si vide riflesso e si spaventò della sua stessa immagine, tanto si era fatto vecchio e decrepito. La sua ricerca era giunta al termine, quando un ombra gli si avvicinò, veloce come lo era lui un tempo, per poi chiedergli:

-Avete visto il mio vero amore?-

Passò qualche minuto prima che rispondesse. Egli pensò alla sua ricerca, alle sue fatiche, alle sue speranze. Poi notò la bellezza dei fiocchi di neve, la perfezione dei gambi ghiacciati della rosa canina, il candore e la purezza dei prati, la tristezza pacata e meravigliosa dei salici in lacrime. Fu allora che la rivide ed alzò la mano:

-Verso Sud- rispose.



                                                                                                               Lorenzo Quadrini

lunedì 7 febbraio 2011

Monday Tales- Non trovo l'uscita

Ed eccoci al solito appuntamento del lunedi. Oggi voglio disseppellire un vecchissimo scritto, uno dei primissimi, agli albori della mia fulgida carriera. Scherzi a parte, semmai la mia carriera diverrà fulgida non credo che lo dovrò a questo scritto, ma ai fini del blog tutto fa brodo!
buona lettura                                                             



                                                 NON TROVO L’USCITA

Non trovo l’uscita. Ci provo, ci riprovo ma non la trovo. Eppure deve essere da qualche parte. Quanti giorno sono chiuso ormai? Fuori da ogni contatto umano, fuori da ogni rapporto, fuori dalla luce, dal buio, dall’ombra. Oramai non sento più neanche Lui. Tuttavia è stato Lui a farmi entrare. Mi ha attirato, con facili promesse. E molte le ha mantenute, irretendomi, adulandomi, viziandomi, facendomi assuefare ai suoi modi, al suo lusso, alla sua potenza, aumentando sempre più la mia mollezza. Nondimeno non sono certo nata ieri. Io e la mia “razza” siamo combattenti, sveglie, veloci, arrampicatrici. Ma  non è servito a nulla.
Poco fa uno spiraglio, un po’ di luce, un po’ d’aria. Era Lui. Voleva vedere se ero già morta. Vorrei rimanere viva solo per il dispetto, solo per fargli un torto, l’unico che potrei fare in queste condizioni. Quell’essere infatti mi controlla senza sosta; detiene il potere unico, è tutto ciò che ho, è il mio destino. E dire che nel primo istante, quando “la scatola” è calata su di me per la prima volta, accompagnata da quel vago sentore di morte, io pensai ad uno scherzo. Non potevo credere che il mio benefattore potesse volermi del male. Anzi addirittura non riuscivo a concepire una cosa del genere. Solo il tempo mi squarciò il velo di menzogne che avevo costruito sulle Sue menzogne, aiutandomi a capire. Capii che non mi aveva intrappolato per farmi riposare, come congetturai il secondo giorno. Capii che non mi avrebbe più cibato, più saziato, più soddisfatto già il terzo giorno. Il quarto soltanto intuii che voleva la mia sofferenza, che voleva essere partecipe della mia fine. Non solo, Lui voleva essere l’incarnazione della mia fine. Lo seppi non appena studiai i suoi movimenti, dapprima sempre atti ad aprire una fessura, per farsi un’idea del mio stato di salute, come se non aspettasse altro che io spirassi. Poi si fece più cauto, mi concesse del tempo, divenne calmo, calcolatore e freddo. Per usare una sua espressione mi “cosse nel mio stesso brodo”. Quanto dovetti soffrire, quanto dovetti penare!
La furia cieca mi travolse il quinto giorno. Un record sicuramente imbattuto. Non morire in quelle condizioni sfiorava la follia. Sbattei sulle pareti, quelle morbide pareti inviolabili che erano la mia prigione e la mia tomba. Urlai, stridei, combattei, sempre sconfitta e sempre umiliata. Che peso tremendo sul mio cuore! Essere tradita dallo stesso che fino ad allora mi aveva accudita e protetta. Un peso, un macigno gravava sulla mia anima, come se non potessi respirare, come se fossi sott’acqua, senza più appigli, senza salvezza. Il fiato era mozzato, gli occhi strabuzzati. Lacrime scendevano, di rabbia e costernazione; di tristezza ed amarezza, lacrime di morte.
E così arriviamo alla fine dei miei giorni. D’altro canto come potevo sperare in un lieto fine? Lui, quel Lui che era stato mio compagno si è trasformato in carnefice. Ma poteva essere altrimenti? Così grande, enorme, immenso, infinito; ed io così piccola ed indifesa. Ormai ho scacciato via i “perché”, i “come mai”, e quasi non penso più a quelle sue mani, divenute artigli e catene. C’è dolore in questa scatola, ma anche rassegnazione. Non resisterò più, ti darò la soddisfazione che cerchi, ti darò ciò che hai sempre voluto, ti darò tutto ciò che ho. Ti darò la mia vita; è tua, prendila.
Infine, mentre esalo l’ultimo respiro, rido. Sghignazzo e sogghigno, rido di me e della mia stupidità, della mia ingenuità, mi regalo un ultimo momento felice. Non mi interessa più nulla, non mi interessa rivedere le verdi praterie ed il cielo cobalto. Nulla mi appartiene adesso.
Ma d’altronde, si è mai sentito di una lucertola che fa amicizia con un ragazzino?



                                                                                                              L. Quadrini